Come le altre esperienze sensoriali, anche la percezione del dolore richiede l’intervento attivo del cervello. Il dolore infatti non è qualcosa che esiste all’esterno del nostro corpo, ma un meccanismo con cui il cervello ci protegge dai pericoli. Con il termine nocicezione si intende la ricezione e trasmissione dello stimolo doloroso dalla periferia al sistema nervoso centrale e l’interazione delle diverse aree cerebrali che elaborano il segnale nocicettivo e ne consente la presa di coscienza. Questo permette al corpo di mettere in atto adeguate strategie di reazione, protezione o fuga. Per rispondere ai nocicettori il cervello memorizza una mappa, una rappresentazione virtuale del nostro corpo nei neuroni ai quali pervengono tutte le sensazioni dolorose.
Recentemente un gruppo di neuroscienziati dell’Università del Colorado a Boulder ha pubblicato sulla rivista Nature Communications uno studio in cui sono stati identificati i segnali cerebrali caratteristici di diverse esperienze di dolore, ed è stato possibile suddividerli in marcatori correlati a un aumento del livello di dolore percepito o con una sua diminuzione (Choong-Wan Woo et al. 2017). Questa mappatura del cervello ha messo in evidenza aree cerebrali che non erano state considerate rilevanti per la percezione del dolore. L’input sensoriale proveniente dal corpo è importante, ma l’esperienza soggettiva del dolore dipende moltissimo da come il cervello interpreta tale input.
Particolarmente coinvolti nell’esaltare o attenuare la percezione di uno stimolo doloroso sono risultati la corteccia prefrontale ventromediale, il nucleo accumbens, e l’ippocampo. L’intensità del dolore spesso non è quindi direttamente proporzionata all’entità del danno nel tessuto ma è il risultato dell’integrazione tra le informazioni ricevute, i processi di ragionamento, le emozioni e le considerazioni.
Choong-Wan Woo e colleghi hanno messo a punto un modello dell’attività cerebrale legata al dolore chiamato SIIPS1 (Stimulus Intensity Independent Pain Signature-1) che sarà utile per una migliore comprensione del dolore cronico e dell’ipersensibilità al dolore, aprendo la strada allo sviluppo di approcci clinici e a terapie più efficaci contro patologie che spesso sono invalidanti. “Ci sono crescenti prove che il dolore cronico comporta spesso cambiamenti nelle aree cerebrali individuate nel nostro modello”, ha detto Tor Wager, coautore dello studio. “SIIPS1 permette una valutazione sistematica dell’alterazione di queste aree nel dolore cronico.” La speranza è che questi studi conducano alla messa a punto di nuovi farmaci, maggiormente efficaci nel combattere il dolore cronico.
Ma se da un lato si cercano strategie per attenuare il dolore cronico, dall’altro c’è chi, per una modificazione genetica, non sperimenta mai nella vita dolore. Questa condizione si chiama analgesia, e, nonostante a prima vista sia invidiabile, può in realtà rivelarsi estremamente pericolosa. Un corpo che non percepisce dolore non potrà difendersi da pericoli. Uno studio condotto dall’University College London e pubblicato su Brain ha documentato un’insensibilità al dolore congenita, trovata in una famiglia italiana, in cui una madre, le sue due figlie e le tre nipoti non hanno alcuna percezione del dolore, nonostante abbiano una normale densità delle fibre nervose intraepidermiche. Tale condizione probabilmente è dovuta ad una mutazione del gene ZFHX2. La speranza è che tutte queste scoperte possano in futuro guidare la ricerca nel campo della farmacologia.